BIOGRAFIA

Katia Margolis nasce a Mosca nel 1973. I suoi studi, umanistici e artistici, si compiono fra Russia, Italia e Australia. Partendo dall’osservazione del contesto abitativo e naturale russo ha sviluppato un linguaggio che si esprime in più direzioni: incisione, pittura, grafica e illustrazione. Gli oggetti di casa e dacia e in particolare il libro, fonte e prodotto del suo lavoro, sono l’antico abc di una narrazione che le permette di abitare il presente.

L’Artista

Katia Margolis ha illustrato e progettato vari libri, sopratutto di poesia, tra quali un libro bilingue “Quaderni Veneziani: Brodskij e gli altri”, ideato dalla Margolis sia dal punto di visto del contenuto (i.e., ideazione generale, raccolta dei testi, traduzioni, introduzione, commentari letterari), sia dal punto di visto artistico (copertina, grafica, illustrazioni). Ha scritto per riviste letterarie, insegnato all’Università Statale delle Scienze Umane di Mosca e alla Melbourne University. Le opere di Katia Margolis sono state acquistate per numerose collezioni private in Europa e negli Stati Uniti, tra cui la maggiore collezione dell’Arte russa del XX sec. di Alberto Sandretti (ospitata al Museo MART a Rovereto). Katia Margolis fa parte del Concilio Europeo dell’Arte ed espone in Italia, Russia e negli Stati Uniti.

Tratto dalla Mostra “Icone Quotidiane” (Novembre 2007)

Luce e materia. L’immagine come punto del loro incontro. La luce non è visibile di per sè. Neanche la materia è visibile senza luce. Solo la materia toccata dalla luce produce l’immagine. Solo le cose toccate dall’invisibile, cioè, vissute o amate, diventano reali. In questo senso arte è sempre realismo. Viste e vissute così tante immagini possono diventare icone, nel senso inteso da O. Pavel Florenskij nel saggio “Le Porte Regali” – icone nella misura in cui riescono ad essere finestre tra due mondi: quello invisibile che si proietta attraverso questa finestra su quello visibile. I primi passi sulla neve del campo della Dacia della mia infanzia russa, visti attraverso il vetro della memoria, anche essi sono una specie di icone. Le impronte visibili che lasciamo sul bianco infinito.

Per quella stessa via, per le stesse contrade 
degli angeli andavano, mescolati alla folla. 
L’incorporeità li rendeva invisibili, 
ma a ogni passo lasciavano l’impronta d’un piede.

Boris Pasternak

Infatti mi è capitato di crescere nella dača di Pasternak a Peredelkino, vicino a Mosca, che rappresenta anche lo spazio fisico del romanzo “Doktor Zivago”, a cui debbo tanto. D’altronde le poesie del romanzo sono state scritte a Peredelkino quasi “dal vero”, e pure lo sfondo storico del romanzo prosegue nel tempo della mia infanzia. Forse proprio per questo mi vedevo piuttosto come un’abitante che come una lettrice di questo libro. Tutte le cose, i rumori e le immagini della dača sono ormai inseparabili dalle poesie.

Per me tutto è cominciato da lì.
La dača della mia infanzia che mi si offre come libro di poesie
Pagine-lenzuola appese alle righe.
Metrica di passi su sentieri coperti di neve.
Rime di alberi lungo il vialetto.
Campo sconfinato di significati dietro il cancello, che anche adesso sto attraversando.
E le cose diventano parole.
Da vedere.
Da toccare.
Da sentire.
Da capire.

Ora a Venezia leggo con gli stessi occhi e nella stessa maniera i riflessi dei ponti, i capitoli delle facciate, le righe delle bricole sulla superficie argentata della carta sgualcita della Laguna. Solo che nel corso degli anni diventa sempre più chiaro come sono piccole queste parole rispetto all’infinità del silenzio dilagato intorno.

Il mio lavoro non è solo сercare di vedere, toccare, sentire, magari capire, ma piuttosto di cogliere questo silenzio attraverso i passi sul bianco.